A due passi dalle Colonne di San Lorenzo, nel pieno centro di Milano, sorge Raboucer, un cocktail bar che è diventato un punto di riferimento per chi cerca accoglienza, idee nuove e qualità a misura d’uomo. Con un dehors targato Espolon che si affaccia su una via poco trafficata, il locale ha saputo ritagliarsi un’identità forte, fatta di drink di qualità, ospitalità rilassata e prezzi democratici.
Raboucer è il primo tassello di un progetto più ampio firmato da Simone Di Gioia e Andrea Pirola, oggi evoluto in una vera e propria visione imprenditoriale di quartiere: alla gestione del bar originario si è aggiunto il rilancio dello storico Tasca e, più recentemente, l’apertura de La Gastronomia, spazio polifunzionale per catering, delivery e cucina mediterranea d’appoggio.
Lo abbiamo incontrato per parlare di cocktail, di cosa significa oggi fare accoglienza, delle nuove scelte di prodotto e di una filosofia imprenditoriale che ha l’ambizione di creare un micro-distretto del bere e del mangiare bene a Milano.
Simone, cosa pensi delle guest? Hanno ancora senso?
Sì, funzionano. Ma spesso sembrano pensate più per chi lavora nel settore che per il pubblico. Io credo che il bar debba tornare a essere uno spazio aperto, accessibile, dove le persone si sentano a proprio agio e non intimidite da tecnicismi o spettacolarizzazioni.
Come nasce la nuova drink list di Raboucer?
Abbiamo mantenuto un approccio semplice e inclusivo. Sei drink ispirati a sei film (sfoglia la gallery): uno con alcolicità importante – Apocalipto – e altri più leggeri. Usiamo anche ingredienti poco convenzionali, come lo sciroppo di riso rosso, che aggiunge struttura e corpo al drink.
Qual è il cocktail più richiesto al momento?
Quello al gorgonzola, ispirato a Breaking Bad. Ne prepariamo anche 10 litri alla volta. È un low alcohol fermentato naturalmente, aromatico e piacevole: riflette bene il trend attuale, che privilegia il gusto senza eccessi.
Parliamo della sala privata all’ultimo piano. Come funziona?
È uno spazio riservato per 25-30 persone, ideale per feste, cene o eventi personalizzati. Si può scegliere la playlist, avere un bartender dedicato, una cocktail list su misura. Sta funzionando bene anche con eventi aziendali: la gente cerca esperienze su misura e contesti più intimi.
La vostra politica dei prezzi è chiara: drink da 9 euro in su. Scelta coraggiosa?
Direi necessaria. Non tutti vogliono spendere 14 o 15 euro per un drink. E noi vogliamo essere un bar per tutti. Dal lunedì al giovedì proponiamo anche offerte: Negroni a 5 euro, birra media a 3, Gin onic dello studente… così manteniamo qualità e inclusività.
Cosa rende davvero fidelizzato un cliente oggi?
Non è più questione di spettacolo. Conta come lo fai sentire. Le nuove generazioni cercano autonomia, ma apprezzano un servizio cortese, sorrisi sinceri, piccoli gesti che fanno la differenza. L’esperienza deve essere calda, accogliente, ma senza forzature.
Il tuo drink preferito? E quello che ti convince meno?
Il mio preferito è l’Americano, da sempre. Quello che mi piace meno è il Negroni in parti uguali: non lo trovo equilibrato. Preferisco la nostra versione, con due parti di Vermouth, una di bitter e mezza di gin. Più morbida, più armonica.
Come vedi il settore oggi?
Servirebbe recuperare un po’ più di spontaneità. Negli ultimi anni abbiamo investito tanto in tecnica e precisione, ma a volte dimentichiamo l’aspetto relazionale. Le persone cercano contatto autentico, non solo perfezione. E poi bisogna fare attenzione ai costi: i clienti li percepiscono, e anche noi.
Un messaggio per i colleghi?
Non è un periodo semplice, quindi dobbiamo essere creativi. La gente vuole bere più leggero, riduciamo l’alcol, prestiamo attenzione alla materia prima. Senza sacrificare la qualità, possiamo proporre esperienze più accessibili. È così che il bar resta vivo, umano e sostenibile.
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