Dimentichiamo per un attimo le Highlands scozzesi. Il vero gigante del whisky si trova altrove: l’India ha raggiunto il vertice della classifica produttiva mondiale. Nel 2024 le vendite hanno toccato quota 260 milioni di casse, con un incremento del 7,6% su base annua. (Fonte: Rare Whisky 101)
Ma c’è dell’altro. Nel 2022 i distillati indiani realizzati secondo i criteri internazionali – quindi partendo da malto o cereali – coprivano già oltre metà del mercato interno, battendo persino le importazioni scozzesi per volumi complessivi. (Fonte: The Whiskey Wash)
Il merito va principalmente ad Amrut, realtà nata nel 1948 che si è dedicata ai whisky tradizionali dagli anni ’80, presentando il primo single malt vent’anni fa, nel 2004. Non manca però il peso di Imperial Blue, marchio lanciato nel 1997 da Seagram e acquisito da Pernod Ricard quattro anni dopo: partito da mezzo milione di casse, ha raggiunto i 22 milioni già nel 2013, affermandosi come riferimento del subcontinente.
Chi ha inventato il whisky? Scozia o Irlanda? Poco importa
Non cambia solo dove si produce, ma anche chi consuma. “Un tempo era roba da uomini maturi. Oggi lo apprezzano anche donne e giovani, curiosi e competenti”, osserva l’esperto di settore Giuseppe Rondani.
Sorprese europee oltre le isole britanniche
I tedeschi figurano tra i primi outsider, avviando la distillazione negli anni ’80. Attualmente guidano la produzione continentale al di fuori del Regno Unito. Emblematica è Fleischmann, realtà bavarese del 1980 inizialmente dedicata al brandy, convertita al whisky dal 1996. Il catalogo comprende single malt in versione single cask quali Blaue Maus, Grüner Hund, Old Fahi, più il grain whisky Austrasier.
Pure la Francia, specialmente in Bretagna e Alsazia, vanta una scena consolidata. L’Inghilterra ha ripreso l’attività distillatoria dopo uno stop partito nel 1903. La Danimarca ha recentemente diffuso il suo primo documento sul whisky artigianale. Produzioni specializzate esistono pure in Svezia, Finlandia, Olanda e Russia.
Continente americano e Africa australe
Oltreoceano il whisky rappresenta un patrimonio storico. Giunse nel Settecento con gli immigrati dalle isole britanniche. Kentucky e Tennessee videro nascere il bourbon a base mais. Il rye, ottenuto dalla segale, si diffuse negli USA e in Canada. Le nuove distillerie proliferano rapidamente, privilegiando le fasce premium.
In Sudafrica opera la James Sedgwick Distillery, fondata nel 1886 a Wellington e attiva sul whisky dal 1990. Three Ships nasce mescolando Scotch d’importazione e produzione locale, oggi affiancato da proposte come il Single Malt 10 anni del 2003.
L’Oriente tra tradizione e sprint commerciale
Il Giappone distilla dal secolo passato, ispirandosi alla tradizione scozzese. Dopo il rilancio degli anni ’80, i prodotti nipponici rientrano tra i più premiati globalmente. Precisione, raffinatezza, identità riconoscibile.
La Cina si è attivata con decine di impianti, inclusi quelli di Diageo e Pernod Ricard, che adottano l’approccio scozzese. Il whisky pesa appena il 2% del mercato alcolico nazionale (dominato dal baijiu), ma l’espansione procede veloce, alimentata dall’interesse verso lo stile di vita occidentale.
Taiwan ha compiuto il salto con Kavalan, brand emerso dopo la fine del monopolio statale sugli alcolici nel 2002. Oggi rappresenta un riferimento mondiale riconosciuto.
Medio Oriente e Penisola italiana: dimensioni contenute, visione chiara
In Israele la scala resta artigianale, ma con propositi definiti. A Tel Aviv, Milk & Honey opera dal 2013 offrendo whisky kosher apprezzati internazionalmente. Nei Golan Heights, Golani realizza whisky, gin e arak da cereali locali e acqua sorgiva. Il movimento è recente ma dinamico.
Pure l’Italia si è riavvicinata al whisky. Puni, in Alto Adige, ha aperto la strada dal 2015. Attualmente circolano circa dieci etichette, includendo Poli (Veneto), Psenner (Alto Adige), Exmu (Sardegna). Altre attendono la maturazione in botte. Le aree più attive? Settentrione, Toscana e Sardegna. I volumi restano limitati, ma la qualità emerge.
L’oro liquido del subcontinente indiano
Credi che gli americani guidino la produzione? Errore. Nel 2024 l’India ha oltrepassato i 260 milioni di casse commercializzate, conquistando il primato mondiale per quantità, con progressione annua del 7,6% (fonte: Rare Whisky 101). Non parliamo solo di numeri. I whisky indiani genuini – ottenuti da malto o cereali secondo standard internazionali – coprivano già nel 2022 oltre metà del mercato domestico, superando lo Scotch importato (fonte: The Whiskey Wash).
Una trasformazione discreta, avviata da Amrut Distillery, fondata nel 1948, che ha presentato il primo single malt nel 2004, distribuito in Italia da Velier. Sui volumi domina anche Imperial Blue, nato nel 1997 sotto Seagram e oggi bestseller di Pernod Ricard, con oltre 22 milioni di casse già nel 2013. Dopo l’ingresso del whisky giapponese nell’élite globale, l’India punta al podio.
Dalle origini coloniali al mercato contemporaneo
Il whisky indiano discende dal colonialismo britannico. Introdotto dal Raj per ufficiali e aristocrazia, è diventato simbolo di prestigio e modernità, anche grazie alla presenza nei film di Bollywood. Negli anni ’80 e ’90 l’esplosione della domanda interna generò numerosi prodotti economici commercializzati come “Indian whisky”. Occorre però precisare: molti non erano whisky autentici. Venivano infatti prodotti partendo da alcol neutro di melassa, con minime aggiunte di malto d’orzo e aromatizzanti. Queste bevande, pur etichettate come whisky sul mercato indiano, non avrebbero potuto fregiarsi legalmente di questa denominazione in Europa o negli Stati Uniti, dove la normativa impone distillazione esclusiva da cereali fermentati.
Oggi questo scenario appartiene al passato. L’India ha compiuto un’evoluzione qualitativa rilevante, e attualmente distillerie come Amrut, John Distilleries e Rampur realizzano autentici single malt, competitivi a livello internazionale.
Rampur Distillery: materie prime locali, prospettive globali
Terza realtà nazionale per rilevanza, Rampur si colloca nell’Uttar Pradesh e conserva oltre 40.000 botti in maturazione. Impiega orzo locale del Rajasthan e applica tecniche di distillazione che ricordano la tradizione europea, ma con un vantaggio: il clima tropicale.
In India l’angel’s share – la quota di whisky evaporata annualmente – può toccare il 12%, contro l’1-2% scozzese. Quindi “tre anni in India equivalgono a dieci in Europa”: la maturazione qui rappresenta una questione d’intensità più che di tempo.
La distilleria dispone di un visitor center paragonabile a quelli scozzesi: grandi vetrate sugli alambicchi, sedute in pelle, banco in legno massiccio. Ma non è l’estetica a raccontare l’India del whisky: è l’ambizione.
Sperimentazioni originali, identità indiana
Rampur non replica semplicemente lo stile scozzese. Il whisky “ASAVA” completa la maturazione in botti di vino rosso indiano, scelta unica a livello mondiale. Altri affinamenti utilizzano botti ex-Porto, ex-Calvados o ex-IPA. Per il 75° anniversario è stata rilasciata una bottiglia celebrativa derivata da tre cask selezionati, diventando così il whisky più dispendioso mai realizzato in India.