Ci vuole un fisico bestiale per fare quello che ti pare, cantava Luca Carboni.
Vale sempre, ma nel mondo dell’hospitality serve anche qualcosa in più: resistenza mentale, intelligenza emotiva e la capacità di stare in mezzo senza farsi travolgere.
Per Samuele Lissoni, classe 1980, il bancone è un confine fisico e simbolico. Da un lato protegge, dall’altro connette. È la soglia da cui osserva il mondo e lo accoglie, un punto di equilibrio tra chi serve e chi cerca qualcosa in più di un semplice drink.
Lo incontro da Feat Barona a Milano, bar che ha contribuito ad avviare, e dove oggi non lavora più.
La forza della lettura umana
“Alla base del successo non è tanto la tecnica, ma l’empatia”, confida. Per Lissoni il bar è una lente sulla società. Ci si siede per bere, ma si resta per essere capiti. Ogni cliente ha un’ombra, una fragilità, una storia che chiede solo di essere riconosciuta. Il barman, allora, diventa psicologo, complice, alleato silenzioso.
Una strada tortuosa tra liceo classico, musica, cinema e poi mixology
Il percorso di Lissoni non è scolasticamente canonico: quattro anni di liceo classico, diploma socio-psicologico. Poca voglia di studiare, ma una fame autentica per musica, lettura, cinema. Ha lavorato come proiezionista nei multisala per tre anni – “luci, pubblico e silenzio”, dice, girando contemporaneamente mezzo mondo come front-man di una band punk’n’roll – finché non ha avuto occasione di lavorare al “Glorioso Magnolia”, ovvero il Circolo Magnolia dello Scalo Milano. Lì ha scoperto il vero amore: il bar.
Formazione, libri e mani in pasta
Lissoni ha frequentato corsi, a partire da quello della Flair Academy, anche se scherza sul suo essere “imbranato nel bartending acrobatico”. E ha studiato libri, provato ricette, creato infusi. “Per me, tra tutti, imperdibile è Saperebere di Fulvio Piccinino. È la Bibbia che ogni barista dovrebbe avere sul comodino“, osserva.
Come si fedelizza la clientela
Lissoni non ha dubbi: il cliente cerca “famiglia, divertimento e comfort”. Fidelizzare oggi significa leggere la persona, non solo servirla. Il barista non può comportarsi in modo uguale ogni sera. Parole chiavi sono attenzione, presenza e flessibilità. Empatia, ancora una volta, è la parola chiave.
Prebatch
“Bisogna sbattersi prima”, dice con un sorriso disilluso. Il segreto sta tutto nel prebatch. Infusi, home‑made, miscelazioni complesse vengono eseguiti con largo anticipo, lontano dagli occhi del cliente. Lissoni costruisce una macchina silenziosa e precisa, dove ogni ingrediente è già pronto, calibrato e controllato. Perché l’ospitalità vera – dice – non deve mai tradire la fatica sottostante.
L’uomo fuori dal bar
Lontano dal lavoro, Samuele ai cocktail preferisce birrette e amari. Non esce spesso per bar e a Milano consiglia il Reverend, zona stazione centrale, vero bar di quartiere. Tra i suoi locali del cuore, poi, c’è il minuscolo Zlatna Ribica di Sarajevo.
Classifiche, guest e visibilità
Le classifiche, dice, servono ad ampliare il business ma richiedono investimenti e PR. Le guest shift? “Piacciono agli addetti ai lavori, poco ai clienti. Sono strumenti di visibilità, non di fidelizzazione. Il cliente vuole coerenza, non effetto speciale“, commenta.
Conclusione: la misura dell’ospitalità
Di Samuele Lissoni colpisce prima di tutto l’ospitalità sincera e schietta. È uno di quei barman che ti accolgono con una disponibilità concreta, fatta di gesti semplici e parole giuste. Amichevole senza mai essere invadente, attento senza apparire servile. E ovviamente, dietro al bancone, sa fare quello che conta: preparare ottimi cocktail.
Ma più di tutto, sa far sentire le persone a proprio agio. E questa, nel mondo dell’hospitality, resta la dote più rara e preziosa.
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