In ambienti dove alcol e consumo di droghe è normalizzato non è sempre facile essere davvero consci di quanto e di cosa si sta consumando. Ma è essenziale. “Personalmente, credo che la chiave di tutto risieda nella moderazione. Non si tratta di eliminare ogni vizio, ma di trovare un equilibrio che non comprometta la salute e la carriera”. Ho intervistato un bartender (che per specifica richiesta dell’interessato resterà anonimo), e ho riassunto il nostro incontro in poche righe da proporvi per condividere con voi la sua esperienza su un tema da tanti vissuta ma da pochi raccontata.
La caduta nella dipendenza
“Ti racconto e condivido con te la mia esperienza, se mantieni l’anonimato. Parliamo di una decina di anni fa. Avevo già più o meno 35 anni. Mi ero già fatto notare nell’Industry della mixology, ma non ero osannato. Poi, tutto d’un tratto, sono divenuto un mito nell’ambiente. Accadde dopo aver partecipato alla finale nazionale di una delle principali gare mondiali. Follia pura: senza aver vinto, complice qualche video e qualche guest, ovunque ero trattato da tutti come una rock star maledetta: open bar fisso, pacche sulle spalle e decine di persone che ogni volta volevano festeggiare con me. Vivevo in un continuo party: assaggia questo, prova quello, fuma quì e così via. Insomma, un delirio: bevevo, fumavo e assumevo droghe più pesanti gratis tutte le sere che uscivo. E uscivo spesso. Troppo spesso”.
Il riscatto: una nuova vita lontano dagli eccessi
Sospira, si accende una sigaretta e resta silenzioso per qualche secondo. “Beh, te la faccio breve: ho perso quasi subito il controllo, in compenso mi sono occorsi diversi mesi per uscire dal tunnel. Mi sentivo un dio, ero scollato dalla realtà. Non rimpiango quel periodo: mi alzavo con il gin e andavo a letto con il whisky. E ovviamente sul lavoro ho iniziato a perdere punti. Sregolato nel sonno ero diventato scontroso, nervoso, autocentrato. Alla fine, come potete immaginare, sono impazzito. Mi sono comportato male con più di una persona con il risultato di perdere qualche amico e di compromettere alcuni buoni rapporti professionali costruiti con anni di fatica. Solo allora ho iniziato a lavorare su me stesso. Che dire ancora? Ormai è acqua passata, ne sono uscito anche grazie al sostegno di mia moglie e “la bamba” non la voglio più nemmeno vedere da lontano. Non mi manca, ma ne ho paura: non sono sicuro che rifiuterei un tiro se mi invitassero. Rispetto ad allora, oggi ho più tempo, più soldi, più energie. Non tocco più nessun genere di stupefacente e bevo solo in occasioni particolari. Conduco un’altra vita, genuina e sana: oltre al lavoro, mi dedico appena posso pure allo sport!”.
La trappola degli eccessi: un fenomeno diffuso
La testimonianza del nostro bartender non è un caso isolato. Il successo improvviso, alimentato dalla viralità sui social media e dal crescente interesse verso la mixology, spesso travolge chi lavora in un ambiente in cui il consumo di alcol e altre sostanze è percepito come parte integrante dello stile di vita. E questo può succedere anche ai grandi. Lavorare dietro al bancone significa essere immersi in un ambiente in cui alcol, droghe e comportamenti disinibiti non solo sono accessibili, ma spesso percepiti come parte integrante dello stile di vita. È stressante intrattenere clienti, mantenere alti gli standard di servizio e partecipare a eventi sociali.
La pressione di apparire sempre al meglio – professionale, brillante e carismatico – può spingere a cercare sollievo o stimoli nell’alcol e nelle droghe. L’idea che “faccia parte del lavoro” è una trappola psicologica che può portare a comportamenti autodistruttivi. Per i bartender che raggiungono fama internazionale, le pressioni aumentano ulteriormente. Competizioni di prestigio o il successo sui social media portano visibilità, ma anche un carico emotivo difficile da gestire. Diventare un “nome” nell’industria comporta l’invito continuo a feste, eventi e collaborazioni, dove si rischia di perdere il controllo nel tentativo di mantenere il ritmo imposto dall’industria.
Last but not least, lunghi turni, paghe spesso basse e la competizione per emergere nell’industria generano stress e senso di inadeguatezza che facilitano il rischio di cadere in abitudini dannose.
L’esperienza di Douglas Ankrah
Creatore dell’iconico Pornstar Martini, il mitico Douglas Ankrah (morto nel 2021) ha dichiarato in più interviste di aver vissuto momenti di grande difficoltà emotiva durante la sua carriera. “Ero al culmine del successo e, al tempo stesso, completamente perso,” raccontava. E avrebbe anche confidato di avere affrontato un periodo di disintossicazione dagli eccessi, trovando poi una nuova stabilità grazie al ritorno alle sue radici e all’impegno per la comunità dei bartender.
Marco Pantani: dalla gloria del ciclismo agli eccessi
La storia di Marco Pantani, uno dei ciclisti più amati e discussi di sempre, offre un parallelo significativo a ciò che accade nel mondo del bartending e, più in generale, a chi si trova improvvisamente travolto dal successo. Soprannominato “Il Pirata”, Pantani era idolatrato per la sua capacità di scalare le montagne con uno stile unico e spettacolare, vincendo competizioni come il Giro d’Italia e il Tour de France nel 1998. Ma era subissato da pressioni incessanti e aspettative insostenibili.
Il suo declino iniziò nel 1999, quando venne escluso dal Giro d’Italia per valori di ematocrito sospetti. Da quel momento, la sua vita prese una piega drammatica. Accusato di doping, isolato da molti colleghi, sentitosi tradito da chi lo circondava Pantani trovò rifugio nell’uso della cocaina. “Mi hanno tolto tutto, e non mi è rimasto più nulla”, dichiarò in un’intervista prima della morte. La pressione di essere un’icona, un campione costantemente sotto i riflettori, lo aveva lentamente consumato. La fine arrivò il 14 febbraio 2004, quando Pantani fu trovato esangue in un residence di Rimini. Aveva solo 34 anni.
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Photocredit: Nicole Cavazzuti