Il cielo di Milano è grigio. Metaforicamente. Fino al 4 novembre, infatti, ben tredici zone di Milano saranno “sorvegliate speciali”. Stop all’asporto dopo le 22, chiusura anticipata dei dehors, divieto di consumo di alcolici in strada. La misura, introdotta per ridurre il rumore e garantire il decoro urbano, ha un impatto che va ben oltre i regolamenti comunali: colpisce la vita stessa della città. L’ennesimo atto di un potere che non ascolta, che impone.
Quella di Milano non è un’eccezione: è il riflesso di un Paese che ha smesso di credere nella vita collettiva. Da Genova a Firenze, le ordinanze antimovida si moltiplicano come se il rumore fosse il nemico, non il degrado, la povertà, l’assenza di visione. Si punisce chi resta per strada, chi lavora di notte, chi cerca spazi per vivere la città fuori dall’orario d’ufficio. È il trionfo del divieto sul progetto, della paura sull’ascolto. Ma la sicurezza non si conquista spegnendo la musica: si costruisce con la cultura, la presenza, la cura degli spazi comuni. Invece, si preferisce criminalizzare i giovani, chi lavora di notte, chi socializza. È l’Italia che chiude prima, che pensa che il silenzio sia ordine e non abbandono.
Ne abbiamo parlato con i vertici dell’associazione Garibaldi District.
L’INTERVISTA
Qual è l’impatto reale di questa ordinanza?
L’effetto è devastante, non tanto sul fatturato immediato, ma perché distrugge la coerenza urbana. Se chiudi i dehors a mezzanotte in alcune aree e lasci libertà in altre, modelli i flussi. Le persone si spostano. La socialità si sposta. E con lei, il lavoro.
Ma i dehors quanto incidono sul fatturato?
Circa il 70% degli incassi oggi arriva da lì. La pandemia ha cambiato le abitudini: la gente vuole stare fuori. Ma ora ci chiedono di spegnere tutto a mezzanotte. Le zone si svuotano. E la bella gente, quella che spende, quella che tiene vivi i quartieri, va altrove. Chi ha investito milioni in strutture estive è costretto a montare dehors “abusivi” per sopravvivere.
C’è chi parla di concorrenza sleale. È così?
Assolutamente sì. Non puoi chiedere a un imprenditore di prevedere ordinanze punitive su zone specifiche. Se vuoi davvero tutelare i residenti, imponi un orario a tutta Milano. Ma questa è una discriminazione territoriale mascherata da civiltà.
Cosa propone l’associazione Garibaldi District?
Uniformità. O si decide che dopo le 22 non si consuma all’aperto da nessuna parte, oppure si lascia libertà a tutti. Ma questo sistema arbitrario, ogni anno diverso, distrugge ogni piano industriale, ogni idea di progettazione.
Molti residenti lamentano degrado e sporcizia. Come si risponde?
Con la pulizia urbana, non chiudendo i bar. Servono più spazzini, magari attivi di notte. I locali ben gestiti sono un presidio di sicurezza, non una minaccia. Chiudere crea angoli bui e deserti. A quel punto il degrado lo alimenti, non lo previeni.
E per chi teme la delinquenza legata alla movida?
Ho tre locali: da noi non c’è delinquenza. Facciamo selezione seria, diamo un’identità ai posti. Ma non possiamo leggere in faccia se uno è un criminale. In compenso, la nostra presenza garantisce ordine e controllo. Spegnere la città vuol dire abbandonarla.
Che clima c’è nelle altre zone coinvolte?
Navigli e Porta Venezia sono già in crisi da mesi. La scorsa estate è stata durissima e i commercianti non si sono più ripresi. Anche Garibaldi, costruita in 25 anni con fatica, si sta svuotando. I clienti migrano dove non ci sono divieti. È una Milano a zone, e non è la Milano che vogliamo.
C’è ancora una possibilità di cambiare questa ordinanza?
Credo di sì, ma serve compattezza tra le associazioni. Serve un ricorso collettivo, basato sul principio democratico che in una città fondata sull’economia del consumo, non si possono cambiare le regole ogni due mesi. Così non è più una città libera: è un esperimento mal riuscito di controllo sociale.
Foto di Nicole Cavazzuti
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